17.03.2020
Bird venne pubblicato da Mary Oliver nel 2003 in una raccolta di saggi e poesie intitolata Owls and Other Fantasies. Come molte delle sue poesie anche questo racconto permette di riflettere sull’amore e su quello che ci lega agli altri esseri viventi. L’ho letto in questi giorni di “isolamento” e mi è piaciuto tanto da voler provare a tradurlo in italiano. E lo condivido volentieri dato che non esiste (ad oggi) un’edizione italiana.
BIRD | UCCELLO
La lucerna del corpo è l’occhio | Matteo 6:22
Una mattina di dicembre di parecchi anni fa portai a casa dalla spiaggia un giovane gabbiano mugnaiaccio. Come giustificazione di questo mio gesto potrei addurre al fatto che era la mattina di Natale e che faceva davvero molto freddo. I gabbiani feriti non sono una rarità: le fauci della natura ne afferrano tanti, spietatamente, e quasi mai l’averne soccorso uno viene ricompensato dalla sua guarigione e dal ritorno in libertà. E quell’uccello si trovava così vicino a quelle fauci buie, che non si lamentò quando lo raccolsi sollevandolo, gli occhi socchiusi, il corpo così affamato che non sembrava potesse contenere nient’altro che aria.
Una vasca da bagno è un buon posto, abbastanza fresco, per un uccello ferito. Là dentro, riverso su un fianco, il gabbiano rimase per tutto il resto del giorno. Ma la mattina seguente se ne stava già seduto ad occhi aperti, con un aspetto goffo ma vigile. Sollevò la testolina e bevve dell’acqua a piccoli sorsi da una tazza. Lo fece con una grazia sfranta, gravemente ferita, l’osso esterno di un’ala completamente spezzato, l’altra ala altrettanto malmessa. Ci eravamo fatte l’idea che in qualche modo si fosse ferito e che incapace di volare fosse stato azzannato da un cane o da un coyote. Insomma, in parole povere, era spacciato.
Ma la mattina seguente accettò del cibo, qualche piccolo pezzetto di merluzzo fresco. Il cibo gli diede subito forza e in poco tempo divenne abbastanza vivace, nonostante le sue ferite. I muscoli del collo e del petto erano forti, lo sguardo pulito e allegro. M. ed io gli parlavamo e lui ci guardava con franchezza. Non mostrava paura né aggressività e avemmo presto la sensazione che non amava molto essere lasciato solo.
Gli preparammo un posto dove sistemarsi, rendendolo più morbido con asciugamani e carta di giornale, proprio dietro la porta a vetri che guarda dall’alto verso il pontile e la baia. Capimmo solo in quel momento che il gabbiano si era ferito anche a una zampa. Poteva mantenersi eretto, ma non riusciva a camminare. Dopo i primi giorni la sua zampa, dapprima rosata, cominciò ad annerire, poi ad avvizzire. Più avanti anche all’altra zampa sarebbe successa la stessa cosa. A quel punto per compensare costruimmo per lui una specie di posatoio, in modo che riuscisse a sollevarsi ancora e guardare all’esterno. Alla fine della giornata, quando diventava buio, lo voltavamo verso l’interno della stanza, in modo che avesse percezione dell’arrivo della notte.
Era innamorato della luce. La mattina, quando scendevo nella semioscurità, mi accoglieva impaziente finché non sollevavo il velo d’ombra girandolo verso la luce in modo che potesse finalmente cominciare a guardarsi intorno. Ruotava quella sua piccola testa lentamente da est a ovest, e poi daccapo, e ancora, guardando tutto intorno lentamente e altrettanto in profondità. Durante i tramonti invernali, ricchi di tinte screziate, il colore della luce rapiva completamente la sua attenzione, distogliendola da noi e da qualunque altra cosa.
Per intenderci dovete sapere che in altri momenti del giorno la sua attenzione era tutta per noi e osservava qualunque cosa facessimo con una curiosità deliziosa. Una mattina feci cadere per sbaglio accanto a lui un foglio per impacchettare i regali e si mise subito a becchettare la carta. Con insistenza meticolosa si sforzava di togliere il berretto da Babbo Natale all’immagine raffigurata sulla carta. Allora cominciammo a inventarci dei giochi per lui. Disegnammo delle figure – pesci, vermi, ragni zamputi, hot-dog -, che pizzicava con un’attenzione particolarmente vivace. E dato che non aveva fame i suoi fallimenti non sembravano frustrarlo, ma divertirlo. Oppure lanciavamo in giro delle piume di corvo che io provavo ad acciuffare con una mano mentre lui faceva lo stesso con il suo becco enorme. Sistemammo poi una ciotola in modo che fosse alla sua portata con dentro della sabbia e un’altra con dell’acqua e cominciò a fare cose ancora più buffe. Gli buttavamo addosso un po’ d’acqua con un dito e lui cercava di prenderla al volo con quel suo becco da spiritato, buttando in giro acqua da tutte le parti con occhi scintillanti. Gli regalammo un pupazzo – per caso capitò un leone-; lui gli becchettava il naso con molta delicatezza e prima di addormentarsi gli si sdraiava addosso.
E molti altri momenti buffi e divertenti seguirono. Ogni mattina gli riempivamo la vasca e lui faceva dei lunghi bagni gioiosi e chiassosi immergendo la testa picchiettata sott’acqua o percuotendone la superficie come meglio riusciva, scuotendo le spalle e aprendo quanto più poteva le ali. Poi, sulla sua isola di asciugamani, nelle mattine piene di sole faceva la sua toeletta prendendosela comoda, con attenzione. Nelle giornate senza vento lo portavamo anche all’esterno, sul molo, in un posticino riparato e pieno di sole. E quando lo portavamo lì, strillava e crocchiava pieno di eccitazione.
Ma non importa con quanto impegno possa provare a raccontare questa storia. Non sarà mai come fu davvero. Quell’uccello era una piccola forma di vita ferita a morte che riusciva nonostante tutto ad essere piena di grazia, gentile, paziente e comprensiva. Ma quel che è altrettanto vero riguarda i muscoli, ed è il il fatto che se non vengono usati, deperiscono. E lui non avrebbe più potuto usarli, per quanto avesse voluto o si fosse sforzato di fare. Nello stesso tempo in cui si dimostrava pieno di curiosità e di appetito altrettanto si indeboliva lentamente, sempre di più. La ferita all’ala era guarita, ma l’altra zampa cominciava a raggrinzirsi e scuoteva quelle sue piccole spalle sempre di meno quando faceva il bagno nella vasca. Il collo era sempre forte e sosteneva il capo ben alto e fermo, e si arcuava un poco, svelto e agile, quando lo muoveva. Era sempre pronto al gioco, ma sempre un po’ più debole. Era una situazione insopportabile per lui. E lo era anche per noi. Come posso dire? Ci stavamo affezionando. Anzi eravamo in pieno in quella situazione pericolosa: gli eravamo completamente affezionate.
Provammo a ucciderlo con dei sonniferi, ma lui non fece altro che dormire molto a lungo per risvegliarsi qualche ora più tardi più allegro di prima. Pensammo allora che la natura avrebbe saputo benissimo cosa fare e lo portammo giù al mare per lasciarlo andare alla deriva. Ma appena lo posammo andò giù a picco e ci tuffammo subito a riprenderlo, tenendolo stretto, e tornammo indietro gocciolando fino a casa.
Passò gennaio. Cominciò febbraio e lui ancora mangiava voracemente e combinava un disastro su tutti i giornali. Ormai aveva imparato a conoscere lo svolgersi della routine delle giornate ed esprimeva una vigorosa eccitazione appena ne percepiva l’imminente avverarsi. Ci fu una tempesta da sud-est e sulla spiaggia raccolsi un vero e proprio bottino di molluschi bivalve dal guscio tenero e lui ne mangiò finché non gli si riempirono gli occhi di sonno.
La parte rotta della sua ala ormai penzolava attaccata a un solo tendine e gliela tagliammo via. Un pezzo di zampa, completamente raggrinzito, gli cadde letteralmente giù, portando via con sé anche la parte superiore dell’osso. Così diventò un gabbiano mono-zampa e mono-ala. Ma sembrava sempre tollerare con pazienza la sua condizione e manteneva viva la sua curiosità.
E riceveva anche delle visite. Gli piaceva che gli grattassero la testa, gli lisciassero le piume o gliele rendessero più arruffate. Tutto quel genere di cose che un gabbiano con due zampe sa fare da sé. Si divertiva sempre con la sua ciotola d’acqua, spalancava sempre il becco appena vedeva volare una piuma di corvo sul pavimento. Gradiva gli applausi.
Soffriva? Il nostro medico, che venne a visitarlo, pensava di no. Avevamo fatto una cosa giusta o sbagliata ad allungare i suoi giorni? Persino ora non lo so. Certe volte era inquieto. Allora lo portavo con me nella stanza dove scrivevo e mettevo su della musica – Schubert, Mahler, Brahms. Si tranquillizzava subito e affondava il capo tra le piume, chiudendosi in se stesso come in una stanza tutta per sè.
Ma quella faccenda confusa della morte seguiva ancora il suo corso nel silenzio del suo corpo. Passò la metà di febbraio. Quando lo sollevavo i muscoli del suo petto si erano così assottigliati che temevo di bucare con le dita la tenera pelle tesa tra le ossa. Eppure i suoi occhi erano ancora pieni del sale della vita e di gioia.
Quell’uccello era di certo un frammento di cielo. Lo dicevano quei suoi occhi. Questo non è un dato di fatto ma piuttosto l’altra faccia della medaglia di qualcosa che si sa per certo, anche se non c’è nulla che ce lo dimostri, e che non tollera nessuna mancanza di fede. Prova a immaginare di sollevare il coperchio che chiude una giara e di ritrovartela non piena di buio, ma di luce. Sorprendente, aggraziato, pieno di vita.
Ma il giorno che sapevamo doveva venire arrivò e l’apatia del suo sguardo fu terribile. Successe verso la fine di febbraio, scesi la scale, come faccio sempre, prima dell’alba. Quindi ritornai al piano di sopra, da M. La mattina aveva appena iniziato a spazzare via la fuliggine della notte, i suoi colori delicati a spandersi. Il piccolo gabbiano è morto dissi a M. mentre chiudevo le tende per non fare entrare nella stanza la luce del giorno.
Bird, Mary Oliver in Upstream. Selected Essays, 2016, Penguin Books | Traduzione di Chiara Besana | Immagine: Mary Oliver, foto di Molly Malone Cook
