03.05.2018
Ogni volta che ascolto Signore delle cime mi vengono i brividi, anche se succede durante una trasmissione radiofonica mattutina su Radio Uno che si occupa forse per la prima volta di montagna, sulla scia della cronaca. Nelle ultime 72 ore infatti sono morte 14 persone in alta quota. Ascolto la radio mentre guido. Forse preferirei di no. Mi va il sangue alla testa quando interviene un ascoltatore che “non si intende di montagna” ma che trova stupido assumersi certi rischi inutili. E comincio a rivolgermi poco gentilmente alla radio quando arriva il momento degli esaltatori del sublime, della retorica dell’abisso e della solitudine davanti alla natura, incombente e minacciosa.
Il conduttore legge un estratto di un saggio: “In montagna si va per vivere queste sensazioni, fatte di grandiosità e di rischio. Come farlo capire a chi vorrebbe mettere il lucchetto alle montagne?”. Spengo la radio anche perché comincia la serie di gallerie di questa autostrada che porta dalle montagne alla pianura, lungo il Lago Maggiore. Ma continuo a pensare a queste due parole: esperienza e rinuncia.
Andare spesso in montagna fa di te un esperto, ma in certi casi non basta. Non se pensi che aver già fatto quell’ascensione cinquanta volte ti metta al riparo da ogni rischio o se ti illudi che una tecnologia possa salvarti la vita. Se non vuoi ascoltare quello che hai intorno, e non riesci a interpretare i segnali con cui la montagna manifesta i suoi cambiamenti, come fa qualsiasi essere vivente sul quale non abbiamo un controllo assoluto, l’esperienza serve a poco. Aiuta al massimo a non perdere la testa. Ma qund’è il momento giusto per rinunciare? Eccolo qui che torna quel preferirei di no così difficile da dirsi, prima ancora che da dire agli altri.
Il problema spesso è che non conta più di tanto la difficoltà di quello che stai facendo, anzi. Qualche giorno fa stavo rilevando una traccia per un percorso che potrebbe nascere intorno al Monte Cistella, in alta Ossola. Non ero sola, eravamo in due, entrambi “esperti”. L’inverno quest’anno è stato lungo e abbiamo trovato ancora tanta neve nei canali e sui pendii ripidissimi del bosco. Avevamo fatto in passato cose ben più difficili? Certo. In ambiente più pericoloso? Certo. Altrettanto attrezzati? Certo. Avevamo voglia di tornare tra tre settimane, con meno neve? Bah, mica tanta. E poi era una bella avventura, in un certo senso. Riuscire a dire “torniamo indietro, veniamo un’altra volta” non è stato semplice. E non lascia una bella sensazione quando ci ripensi le ore successive.
E però chi dice che debba essere semplice? Che sia per orgoglio, per pigrizia, per incoscienza, per evitare di litigare con l’amico che scoppia a ridere mentre ti guarda annaspare in un buco nella neve in cui sei finita a 2600 metri di quota a inizio giugno, o perché non vuoi deludere dei clienti che si fidano di te, perché i clienti hanno già pagato e come si fa a dirgli che si torna giù? Eh. Non è semplice per niente, no.
So quick bright things come to confusion*. Commettere errori di giudizio è così dannatamente facile, ed è un rischio che va calcolato ogni volta che si accetta di assumersi la responsabilità di se stessi e di altri in montagna. E proprio perché so quanto è difficile dire di no, condivido quello che ha detto poco fa un altro ascoltatore: evitiamo di giudicare per favore. Perché a fare bene e meglio dopo, siam capaci tutti.
*Sogno di una notte di mezza estate, Atto I Scena I, Shakespeare
| Ghiacciaio del Monte Leone, Agosto 2016 |