19.02.2019
«Quando si sono sollevate emergendo dai mari, le montagne sono state immediatamente sottoposte all’azione dell’erosione: i detriti provenienti dalle catene in formazione sono finiti negli adiacenti bacini marini formando masse di sedimento scuro. Questi sedimenti, i detriti della tettonica, comprendevano il Flysch. Mentre la catena continuava la sua evoluzione, e la crosta si riduceva ulteriormente nelle ganasce della morsa tettonica, il Flysch stesso è stato coinvolto nel processo di piegatura e sovrascorrimento.» (Terra, una storia intima, Richard Fortis)
Mentre cammino su questi sentieri a portata di mare guardo quello che mi ritrovo sotto i piedi, una roccia irregolare molto simile a cemento grezzo, che ricorda un poco quello delle fontane in stile rocaille dei giardini pubblici. Le formazioni geologiche vere e proprie sono due: i calcari del Monte Antola, che fanno parte di uno dei numerosi flysch del Cretaceo, e i Conglomerati di Portofino, molto più recenti (Oligocene), e che si trovano sovrapposti in discordanza ai flysch.
Sono partita da San Rocco, non lontano da Camogli. Già alla Chiesa di San Nicolò noto qualcosa di strano nel tipo di ciottolato usato per la pavimentazione della piccola piazza. Clasti arrotondati di colore nero, tutti della stessa grandezza e colore. Sembra quasi un mosaico, qui lo chiamano “risseu” (sospetto che ci sia una qualche umlaut da come lo prononunciano). C’è una donna seduta sul muretto che guarda verso l’orizzonte azzurro, non si volta al mio arrivo e la lascio tranquilla con i suoi pensieri anche se un po’ mi spiace. Raggiungo Porto Pidocchio e prima di spingermi verso Punta Chiappa in questo mio Amarcord personale (in questi posti ho passato una delle estati più belle della mia infanzia) ritrovo la maestosa piega di strati di calcari marnosi, che ricordo di aver visto allora dal battello che mi portava verso San Fruttuoso. Tutto qui, tutto come lo ricordavo. O quasi insomma.
La geologia determina la gran parte della realtà e del carattere di un luogo: la pietra con cui sono costruiti i muri a secco che trattengono la terra, le chiese e le case più vecchie e la loro altezza, quello che si coltiva, la forma dell’acqua che scorre e scompare e quella che affiora: poco prima di arrivare a Porto Pidocchio la sorgente del Fosso dei Bruchi sfrutta per uscire proprio il contatto imperfetto tra calcare e conglomerato.
Continuo a camminare, risalendo verso Batterie, difese costiere fortificate dai tedeschi della Todt dopo l’8 settembre 1943 e che entrarono a fare parte del cosiddetto Vallo Ligure. Il resto del sentiero in direzione di San Fruttuoso è un buon percorso, con qualche catena per assicurare i punti più esposti e terrazzi abbastanza ampi per la sosta delle capre selvatiche. Ne vedo solo una verso la Torretta, poco prima di San Fruttuoso, irraggiungibile, su uno scoglio a picco sul mare.
I miei piedi di certo sono abituati all’asfalto, e so che conoscono bene le rocce di questo angolo di Alpi dove mi ritrovo a vivere, la Val d’Ossola – fatto per lo più di gneiss e altre rocce metamorfiche e pochi graniti, con quella ruvidezza tipica di una roccia nata nella profondità della Terra. Eppure dopo pochi secondi sanno come muoversi su una superficie completamente diversa, irregolare perché composta da migliaia di singoli ciottoli/granuli/clasti allisciati in millenni (dai tempi dell’Oligocene) e tenuti insieme da sabbie compatte come cemento. Apparato perfetto e struttura complessa queste due appendici ossute che mi ritrovo come sostegno. Leggo che ci sono 7200 terminazioni nervose, 26 ossa e 150 legamenti che lavorano in autonomia per tenermi in equilibrio e portarmi a spasso sui sentieri di montagna. Un capolavoro decisamente sottovalutato rispetto al pollice opponibile.
Elogio ai piedi quindi, Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare.
| Conglomerati di Portofino, tra Camogli e San Fruttuoso, Inverno 2019 |